È possibile evitare gli anglicismi?

Alberto-Sordi-Un-americano-a-RomaQuante volte abbiamo sentito invettive contro gli anglicismi e proclami per un ritorno a un italiano al 100%? Sono tantissime le discussioni in rete in merito e Annamaria Testa, tempo fa, ha anche lanciato la petizione #dilloinitaliano per fermare l’abuso dell’inglese nelle nostre conversazioni quotidiane.

Se in alcuni casi può essere auspicabile usare un termine italiano piuttosto che il corrispettivo inglese, in altri, però, il risultato sarebbe davvero disastroso, anche quando l’equivalente italiano è disponibile. Stiamo parlando quindi, secondo una tradizionale distinzione, di prestiti di lusso, non di prestiti di necessità. I primi sono quelli che si affiancano alla parola italiana già esistente, mentre i secondi designano oggetti, idee, ecc. che arrivano direttamente nella nostra lingua e nella nostra cultura con quel nome. Il mouse non può essere chiamato “strumento che serve per spostare il puntatore sullo schermo”, né tantomeno “topo”. Un meeting può essere però chiamato “incontro”.

Diversa cosa è il calco, parola che riprende la struttura morfologica (pallacanestro deriva da basket-ball) o il valore semantico della parola di provenienza (il verbo salvare ha acquisito una nuova accezione da quando è entrata l’espressione save riferito a documenti informatici).

Ovviamente prestiti e calchi fanno parte della vita stessa di una lingua, che si modifica negli anni e nei secoli proprio entrando a contatto con le altre. Il dibattito degli ultimi anni riguarda però l’abuso dei prestiti di lusso e secondo alcuni si potrebbero addirittura evitare del tutto i cosiddetti prestiti di necessità. Ma come sarebbe la nostra lingua senza l’uso degli anglicismi? Proviamo a tradurre un brano zeppo di anglicismi in italiano.

Ho lavorato tutto il weekend, ho avuto un breefing con il nostro CEO, che mi ha ripetuto in loop le stesse cose per ore, riepilogando continuamente i vari step per costruire un’efficace campagna di advertising per un nuovo device. Il giorno dopo ho dovuto sorbirmi una lunghissima conference call con degli investitori americani, dei veri e propri nerd noiosissimi. Ho dovuto sempre pranzare in ufficio, concedendomi solo qualche sandwich e un paio di drink.

Il brano è forzatamente appesantito (nessuno direbbe di aver bevuto un drink, ma ho voluto strafare). Ecco come sarebbe se ci sforzassimo di non usare più termini inglesi.

Ho lavorato tutto il fine settimana, ho avuto una riunione con il nostro amministrazione delegato, che mi ha ripetuto a ciclo continuo le stesse cose per ore, riepilogando continuamente le varie fasi per costruire un’efficace campagna pubblicitaria per un nuovo dispositivo. Il giorno dopo ho dovuto sorbirmi una lunghissima videoconferenza con degli investitori americani, dei veri e propri sfigati noiosissimi. Ho dovuto sempre pranzare in ufficio, concedendomi solo qualche panino e un paio di bibite.

Il discorso fila (a parte il fatto che tradurre nerd con sfigati non è molto corretto, lo so), ma si tratta di termini che trovano una valida corrispondenza in italiano. Va ricordato, comunque, che molto spesso si tratta di sfumature, che il termine inglese conferisce al parlato. In alcuni casi si tratta di voler aggiungere al discorso una nota divertente, l’espressione in loop rende molto di più l’idea di qualcosa che torna ossessivamente uguale a se stessa. In altri casi l’intento è quello di sembrare più fighi, più cool. Se mi dici di aver parlato con il tuo CEO mi fai subito pensare a Steve Jobs, se mi racconti di aver avuto con un colloquio con il tuo amministratore delegato, mi viene in mente Corrado Passera.

Pubblicato da Carmela Giglio

Cacciatrice di sinonimi, scalatrice di costrutti sintattici, esploratrice di ambiguità semantiche, con un'improvvida attrazione per tutto ciò che è visuale e visionario.